Moggi story, alla ricerca di un'equità negata
Tutto sembrò avere inizio verso fine aprile 2006: sembrò, perché in realtà
la macchina infernale si era già messa in moto da tempo, e a spingerla ci si era
messo più d'uno. A lanciare il sasso nello stagno fu il roseo Ruggiero Palombo,
che il 22 aprile lanciò alla Figc un assist per un'estate rovente di
intercettazioni; e il 2 maggio la Federazione uscì allo scoperto ammettendo di
essere in possesso dal 13 marzo di un dossier con la trascrizione di
intercettazioni telefoniche tra personaggi del mondo del calcio (Moggi, Pairetto
e Mazzini); anche se altro non era che il faldone proveniente da Torino, dove il
procuratore Maddalena aveva archiviato l'inchiesta per l'insussistenza di reati
penali. Ma al lavoro c'erano già altre due Procure: quella di Roma, che indagava
sulla Gea, con l'inchiesta condotta dai pm Palamara e Palaia, e quella di
Napoli, che con Narducci e Beatrice dal 2001 stava indagando su una vicenda di
calcioscommesse in cui ad un certo punto faceva la sua comparsa Franco Dal Cin,
presidente del Venezia, che se ne usciva con la storiella della combriccola
romana, capeggiata da De Santis, e con il "Si dice in giro che" De
Santis e gli arbitri romani sarebbero stati proni al volere della GEA e quindi
di Moggi. Erano solo chiacchiere di corridoio tipo quelle delle comari tra i
vialetti al mercato (e la deposizione del Dal Cin al processo di Napoli ha
chiarito il personaggio e la valenza delle sue 'sensazioni', la combriccola è
morta lì), ma la combriccola assurse presto al ruolo di una cupola nella cupola,
con a capo De Santis, organica e al servizio della "compagine moggiana" ("un
centro di potere dalle potenzialità così elevate come quello messo a punto da De
Santis, tra l’altro in un settore nevralgico qual è il sistema arbitrale, non
poteva coesistere all’interno del 'sistema calcio' senza avere legami con
Luciano Moggi", scrive Auricchio nell'informativa del 2005).
Qual è il trait d'union tra Napoli è Roma? Il fatto che i magistrati
napoletani assegnarono la delega ad indagare ai Carabinieri di Roma, capitanati
dall’allora maggiore Attilio Auricchio (poi sotto i riflettori di Calciopoli
sarebbe diventato colonnello e infine capo di gabinetto di De Magistris al
Comune di Napoli), di stanza presso la caserma di via In Selci: la motivazione
la fornì il pm Filippo Beatrice in un'intervista
all'Espresso ("sapevamo che loro s'erano già occupati di Moggi e del suo
entourage, coinvolti nella vicenda delle fideiussioni. Avevano già
materiale"), la stessa intervista in cui l'altro pm Narducci bollò
sdegnosamente come illazioni gratuite i sospetti di qualche indagato:
"Qualche indagato avanza sospetti: non si ritroverebbero telefonate o
conversazioni che pure ci sarebbero state". Tesi sostenuta da Narducci
anche a Napoli col suo celeberrimo 'piaccia o non piaccia agli imputati....', un
coup de théâtre miseramente scoppiatogli in mano quando tutti hanno potuto
constatare che le telefonate invece c'erano, erano state viste, contrassegnate
coi baffi e 'misteriosamente' scartate. Sì, perché l'imputato malfidente non si
era limitato alle chiacchiere: era passato ai fatti, aveva impegnato le sue
risorse finanziarie a fare quello che i pm avrebbero dovuto fare per lui,
cercare, meglio, non cestinare, anche elementi a suo discarico e a mettere su un
pool di lavoro, coordinato dall'ottimo Nicola Penta, per smascherare la falsità
di questa affermazione. Ha comperato a caro prezzo (decine di migliaia di euro,
qualcosa che non tutti gli imputati potevano permettersi) i cd con le telefonate
e con il suo pool (nemmeno questo un 'qualsiasi' imputato potrebbe permettersi)
ha affrontato difficoltà a volte insormontabili (telefonate illeggibili...) e ha
messo a nudo in qual modo fossero state volte le indagini, a senso unico, come
ha dovuto riconoscere la stessa sentenza di Napoli, sia pur sfociata in una
condanna: "Si è badato solo a correr dietro ai misfatti di Moggi".
A proposito di un'altra affermazione di Narducci in quell'intervista
all'Espresso ("Qualche persona interessata avanza una tesi né dimostrata né
dimostrabile: ci sarebbe stato un input iniziale, ovvero una regia occulta da
parte della struttura Telecom che ha rapporti con l'autorità giudiziaria"),
saremmo tutti curiosi di conoscere la strana storia che ha portato in via In
Selci, nel giugno 2005, il pc di Tavaroli contenente materiale informatico:
Tavaroli è l'uomo del Dossier Ladroni (L'operazione Ladroni mi venne
commissionata dall'Inter nella persona di Moratti, poi la feci con Facchetti,
disse proprio Tavaroli al processo Telecom) e a giugno 2005 "le indagini su
Calciopoli non erano state chiuse e le informative sulle schede svizzere
dovevano ancora essere realizzate" (cit. avv. Gallinelli). Senza parlare
poi dell'altro pasticciaccio delle schede svizzere, determinanti per le condanne
nel processo di primo grado: non era reato possederle, non erano in realtà
segrete perché erano totalmente intercettabili (come ha chiarito proprio a
Napoli l'ing. De Falco), la localizzazione e l'attribuzione delle schede stesse
è quella che abbiamo visto nel lavoro quanto meno approssimativo di Di Laroni;
farne un elemento di prova certo e decisivo per la condanna degli imputati pare
un po' avventato; e infatti le motivazioni sono tutto sommato guardinghe: siamo
"al limite della sussistenza del reato di tentativo", un confine
piuttosto labile col nulla di concreto. Senonché doveva andare così,
evidentemente.
Sul piano sportivo le cose sono andate anche peggio: un processo in fretta e furia,
senza nessuna possibilità per gli imputati di difendersi efficacemente, tanto le
regole erano quelle del circo della caccia di sandulliana memoria e alla testa
della Figc stava quel Guido Rossi, ex CdA Inter, altra inquietante 'coincidenza', che
assunse l'incarico mostrandosi sin
troppo sicuro del fatto suo: "Non sono per niente preoccupato, quando
diventai presidente della Consob mi dissero scherzando: ma va a fare il
moralizzatore in una casa di tolleranza...". Ecco, appunto, c'era
arrivato.
E via con tutta una serie di stranezze, almeno secondo i comuni canoni
della Giustizia (ma abbiamo visto ripetersi le stesse storture nel caso del
calcioscommesse): avevano trovato il mostro da sbattere in prima pagina, dopo di
che il calcio sarebbe stato pulito, le mele marce sarebbero rimaste felicemente
impunite, prescritte e cartonate sotto lo sguardo indulgente di dirigenti
incompetenti confessi; per liberarsi definitivamente di chi costituiva per loro
un eterno rimprovero per come erano andate le cose (e come invece erano state
fatte andare in altre situazioni, ad esempio nel caso Preziosi) ecco una bella
norma ad personam.
Ora il calcio è pulito, dicono: i risultati sono sotto gli occhi di tutti,
un degrado generalizzato, una gara a chi strilla di più, insulti, violenza,
miseria materiale e morale.
E a pagare non era stato il solo Moggi, perché per costruire e sostenere la
cupola e falsare le gare (risultato poi negato dalla sentenza di primo grado di
Napoli) il fantasioso 'sistema' aveva bisogno di arbitri: ed ecco che,
invischiati in un ginepraio, erano finiti una serie di direttori di gara, che
hanno visto, sotto le macerie di questa storiaccia, le loro carriere andare in
fumo e le loro esistenze devastate. A partire da De Santis che, oltre ad aver
visto la vita propria e della sua famiglia spiata in tutte le più private
pieghe, ha avuto la carriera stroncata (avrebbe dovuto andare ai Mondiali 2006,
e proprio alla vigilia invece finì tutto), oltre ai guai giudiziari culminati in
primo grado nella condanna ad un anno e 11 mesi; certo della sua innocenza, non
si arrende, rinuncia alla prescrizione e a Moratti chiede i danni per l'opera di
intelligence illegale ai suoi danni. E Pieri, un arbitro che era definito tra i
più promettenti, e Dondarini, e Dattilo, tutti finiti nel tritacarne, carriere
stroncate e difficoltà a livello personale, familiare e professionale per tutto
il fango gettato su di loro. Gli assolti nell'appello dell'abbreviato hanno
ringraziato tutti il pool di Moggi, senza il quale sarebbero stati messi
nell'impossibilità di difendersi; anche se sanno benissimo che ciò che è stato
loro ingiustamente tolto, a livello materiale e morale, nessuno potrà mai
restituirlo.
Certo che ora, venendo meno, uno dopo l'altro, gli arbitri, quella cupola
diventa più sgarrupata che mai.
Ma era l'Europa la meta da tempo inseguita da Moggi per ottenere giustizia;
lo aveva detto subito dopo la conferma della radiazione (sancita in primo grado,
il 15 giugno 2011, dalla Commissione Disciplinare Nazionale, sentenza confermata
dalla Corte Federale il 9 luglio 2011, con successivo rigetto del ricorso.da
parte dell'Alta Corte di Giustizia del Coni il 4 aprile 2012). "Avevo detto
che arrivavo in cima alla questione e in cima arriverò". Però, per adire la
Corte Europea dei Diritti dell'Uomo occorreva prima esaurire tutti i gradi di
giudizio possibili in Italia. E così Moggi è dovuto passare per il Tar del Lazio
(2 agosto 2012), il Consiglio di Stato (11 settembre 2012) e infine la
Cassazione (sentenza n. 18753 depositata il 7 agosto).
Adesso la parola passa alla Corte Europea, che potrebbe pronunciarsi entro
sei mesi: è questa la speranza del legale di Moggi, l'avv. Tedeschini, che ha
chiesto la trattazione prioritaria del ricorso.
Del resto che la Corte Europea debba pronunciarsi su ricorsi italiani non è
una novità: in questa classifica, che non depone a favore del livello di civiltà
del nostro Paese, siamo terzi, dietro Russia e Turchia; e nel 2012 ben 38
pronunce su 63 hanno condannato l'Italia. Qualcosa vorrà pur dire.
E questa vicenda, per definire la quale, se non avesse causato tanti danni
e tante sofferenze, strampalata sarebbe l'aggettivo ideale, sembra davvero
emblematica, per tutte le anomalie che hanno caratterizzato le indagini,
anomalie che hanno indotto Moggi, De Santis, Pairetto, Bertini e Ceniccola a
presentare alla Procura di Roma un esposto-denuncia contro ignoti in cui
chiedono che si indaghi nei confronti di chi indagò nell'inchiesta su
Calciopoli.
Carmen Vanetti (aka Angelo Ribelle)
Twitter: @JuveGrandeAmor
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