mercoledì 9 ottobre 2013


RISPETTO!  E' LA SOLA CURA PER IL CALCIO (e non solo...)




Tradizionalmente i tifosi, quelli che rappresentano ‘il dodicesimo uomo’ in campo, sono sempre stati coloro che affollavano gli spalti per sostenere e incitare la propria squadra, sospingendola, con quella che ora Conte chiama la bolgia, alla vittoria, o quantomeno a dare il massimo di sé: tra tifoserie gli sfottò non erano mai mancati, così come gli epiteti all’arbitro ma, si sa, lo stadio non è un salottino, è un’arena; anche le esultanze erano ‘eccessive’, una valvola di sfogo adrenalinico da una quotidianità spesso monotona e imbalsamata.
Fin qui ci stava tutto. Poi, con il progressivo imbarbarimento dei costumi, arriviamo allo spettacolo che ci si presenta oggi sotto i nostri occhi: lo scopo primario che conduce troppi alla partita non è sostenere i propri beniamini, tifare per, ma tifare contro. Contro qualsiasi cosa. Contro il diverso, come si potrebbe arguire dal colore della sua pelle, in nome di un razzismo che è comunque di facciata, e quindi se possibile più becero, perché prescinde  da qualsiasi, per abietta che sia, convinzione filosofica. Contro i rappresentanti di città e tifoserie che nulla hanno a che vedere con la gara in corso (e nemmeno con una diretta rivalità di classifica): perché non ci arrivo a capire cosa potesse legare Juve-Milan ai napoletani o ai napolisti, nulla. Contro i morti persino, perché prendersela con le vittime dell’Heysel o con Ale&Ricky o con i caduti di Superga è cosa, oltre che folle e disumana sul piano umano, incomprensibile nell’economia del tifo. Contro i propri giocatori, prendendo di mira quello che magari sbaglia tre passaggi di fila, e che avrebbe bisogno forse più di altri di essere incoraggiato e sostenuto, per le critiche c’è tempo dopo, a partita finita.

Qual è l’anello che è saltato, tra queste due fasi, tanto dissimili tra loro, addirittura opposte? E’ il rispetto. Rispetto è qualcosa che non si impone per legge, che non si consegna assieme alla tessera del tifoso, è qualcosa che ci si porta dentro. Platini dice bene quando afferma che gli stadi replicano ciò che accade nella società; naturalmente potenziato dalla forza trainante del gruppo. Nella società oggi il grande assente è il rispetto, se non quando viene imposto, e allora diventa un surrogato; manca dunque come valore, e ce ne accorgiamo nella vita di tutti i giorni, si fa fatica persino a farlo passare nelle scuole ai bambini, che subito ti portano l’esempio di quanti agiscono diversamente, nella vita reale piuttosto che nel modello pubblicitario, manca nei media, non c’è nelle sfere alte della politica, ma anche della governance del calcio.

Un rispetto così svanito che nemmeno la sua ombra è stata mai evocata nei discorsi dei protagonisti del nostro povero mondo pallonaro accorsi al capezzale dello stadio Meazza sigillato per una gara dal Giudice Sportivo. Le reazioni sono state variegate, e talvolta sopra le righe:
- da quella scomposta (per un dirigente navigato come lui) di Galliani (giunto a mettere in dubbio persino l’operato degli ispettori federali, che avrebbero sentito quelle parole in bagno o al bar) a quella delle istituzioni (da Abete a Malagò con l’eco di Platini nelle orecchie);
- da quella di Lotito che, già pizzicato dalla Uefa (che ha chiuso per un turno l’Olimpico in seguito alle intemperanze verificatesi contro i polacchi del Legia Varsavia), ora pretende che  la Uefa stessa si adegui al malcostume ambientale italico, a quella dei vari presidenti e dirigenti che dal 4 giugno, data in cui il Consiglio federale approvò la nuova normativa, ad oggi, non hanno nemmeno provato ad esaminare le sfaccettature di tale normativa innovata, né a riprendere in mano l’annosa e spinosa questione della responsabilità oggettiva, impegnati com’erano a trovare il modo di assegnare a Lotito l’incasso della Supercoppa e a spennarsi in liti di cortile; e che ora si affrettano a dichiarare in coro la loro solidarietà al Milan, consapevoli e impauriti dal fatto che potrebbe toccare in futuro a loro e che bisogna trovare un escamotage all’italiana; la loro fortuna è proprio che è capitato al potente Milan perché, se fosse capitato alla Juve, già l’anno passato tartassata da multe per cori e scemenze assortite, il club avrebbe pagato il conto e  il tutto avrebbe fatto ben poco rumore all’esterno, tanto meno nell’incompetente Figc.
- da quella dei media, che si son svegliati tutti sudati  a scoprire la nuova norma e che, al più, si perdevano in questi mesi a discettare se fosse cosa buona e giusta abbandonare il campo in caso di cori o buu razzisti (curiosamente la squadra per la quale si poneva questo problema era proprio quel Milan ora lui stesso sanzionato) fino  agli ultràs che hanno impiegato poche giornate a capire che la debolezza intrinseca del sistema lasciava spazio alle loro scorribande nel tentativo di fare degli stadi una terra di nessuno in cui solo loro al limite potessero dettar regole; debolezza di sistema che non è solo sistema calcio, ma è sistema Paese, perché il calcio da solo non può sconfiggere questa piaga. Non può farlo su piano pratico perché, se sparare nel mucchio e chiudere lo stadio è iniquo nei confronti di quanti, si presume la maggioranza degli spettatori, mantengono un comportamento civile, l’alternativa è individuare e perseguire con la massima severità gli effettivi responsabili. E questo è compito che esula dai poteri della giustizia sportiva,  e chiama all’opera le forze dell’ordine.

Poi ora si sta a spaccare il capello in due, distinguendo tra discriminazione razziale e territoriale, anche se a far testo è il sostantivo, non l’aggettivazione che l’accompagna. Discriminare (e conseguentemente offendere con la terminologia del caso) è intollerabile: che sia la razza, la provenienza, il sesso, la religione, la cultura (in senso lato).
Non a caso il Consiglio Strategico per il Calcio Professionistico (formato dalle federazioni europee, dai club, dalle leghe e dai giocatori (quindi non una società segreta che opera nel buio carbonaro) è stato molto chiaro, quando tra le altre cose, afferma"
- “prende atto del fatto che il razzismo è una forma di discriminazione, ma non è l'unica che si manifesta nel mondo del calcio, ed esprime la propria incondizionata opposizione a qualunque episodio discriminatorio;
- chiede a calciatori e allenatori – soprattutto a quelli che potrebbero avere maggiore influenza su coloro che si rendono colpevoli di atti discriminatori – di condannare tali atti, anche se questo significasse criticare i propri tifosi o i propri giocatori.
- chiede alle autorità nazionali (governi, forze dell'ordine, ecc.) di contribuire: fornendo agli organi calcistici le necessarie misure legali, arrestando, perseguendo penalmente e bandendo dagli stadi per periodi significativi coloro che si rendono responsabili di episodi di razzismo, consentendo lo scambio di informazioni in merito a comportamenti discriminatori fra stati e organi calcistici".
Certo, il secondo punto che ho citato dovrebbe essere scontato di per sé: eppure nemmeno questo in Italia accade. Così Allegri, dopo Milan-Samp disputata con la curva chiusa, per le intemperanze di Milan-Napoli: “Ieri gli ultras sono venuti a salutare la squadra, incitandola e incoraggiandola come hanno fatto l'anno scorso, in un momento di difficoltà. I tifosi sono sempre stati molto vicini a noi. In questi miei quattro anni di Milan, la curva è sempre stata esemplare, gli sfottò  ci sono sempre stati e ci saranno sempre. Credo che in Italia stiamo migliorando da questo punto di vista, è normale che siamo solamente all'inizio e quindi piano piano che andremo avanti ci sarà molta più educazione e rispetto da parte di chi entrerà allo stadio". Peccato che questa educazione e questo rispetto si  fossero manifestati con i cori portati fuori dallo stadio ma, se per tal motivo  non punibili dal Giudice sportivo, non meno esecrabili (e ‘Vesuvio lavali col fuoco’ non può essere ascritto a coro goliardico o campanilistico, le tragedie arrivano senza bisogno di invocarle) e anche con uno spettacolo squallido all’interno col resto dello stadio, quello esente dal primo gradino delle sanzioni, che fischiava allo speaker che invitava ad astenersi da cori discriminatori e cantava qualcosa di più ‘prudente’ (‘Noi non siamo napoletani’), ma comunque di dubbio buon gusto, mettiamola così. Se questo è l’inizio, e se chi ben inizia è a metà dell’opera, è facile individuare dove porterà questa china.
Certo, tutto ciò che si richiede per uscirne non è roba per don Abbondi, ma non è di don Abbondi che ha bisogno il calcio, ne ha avuti (e rimangono ben accomodati nelle loro poltrone) fin troppi. E’ questione di uomini, che conoscono il valore della parola rispetto e che dal mondo dello sport devono allontanare mezzi uomini, ominicchi e quaquaraquà, a qualunque categoria appartengano.


Carmen Vanetti    aka Angelo Ribelle

Twitter: @carmenvanetti1

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