lunedì 14 ottobre 2013

 ANDREA AGNELLI  E QUELLO SGUARDO OLTRE LA SIEPE








Torniamo all'11 ottobre.
"L'allarme di Agnelli: Pogba: difficile tenerlo" (Gazzetta); "Juve: Agnelli choc. Pogba può partire" (Corriere dello Sport). "Agnelli ammette: 'Pogba? Potrebbe partire a fine stagione (Ilsole24ore.com)
Questi solo tre esempi di titoli.
E così Pogba se ne va.... "Retroscena: Real e Raiola: la Juve perderà Pogba. A fine stagione il francese lascerà la Juventus che non può competere con il potere economico dei grandi club europei e deve fare i conti con il procuratore italiano" (panorama.it)
E il giorno dopo, il 12, si va già oltre. A Pogba idealmente venduto, si pensa già agli eredi (di un ragazzo di vent'anni, mica di una gloria a fine carriera) "E se Pogba...  Andrà via? La Juve studia più soluzioni. Chi arriva se parte il francese? Dipende dal futuro di Conte, ma Verratti e Nainggolan sono in prima fila" (Gazzetta). Cellino si starà già fregando le mani. E così, tra l'altro, anche Conte ha la valigia in mano. D'altronde le domande poste in questi giorni a Marchisio e Chiellini sul loro eventuale gradimento di Prandelli sulla panchina bianconera gettano già un altro sasso a turbare la pace dei tifosi bianconeri, almeno di quelli che s'informano solo sui media nostrani.
Inutile tediare con altri titoli, la musica è questa. Però è stonata. Perché di tutto il pentagramma suona una stessa nota, ripetuta, con tutti gli strumenti a disposizione.
Cos'è accaduto in realtà? Andrea Agnelli era a Londra, presente a Leaders in Football, un evento che dal 2008 riunisce annualmente nella metropoli inglese i più importanti dirigenti calcistici per condividere conoscenze, buone pratiche e idee innovative.
E Pogba? Solo un nome, messo lì in un discorso che riguarda il futuro, prossimo, del calcio italiano, uno sicuramente appetito dai grandi e ricchi club stranieri, come anche Vidal, tanto per restare in casa bianconera (ma, parlando di futuro, sicuramente più attraente, per la giovane età e i margini di miglioramento). Però il discorso sul calcio italiano è spinoso, difficile, traumatico. Il calciomercato è facile, incline alle fantasie, pane per sognatori.
E' un discorso, questo, che Agnelli aveva iniziato già lo scorso anno, proprio a 'Leaders in Football', mettendo nel mirino, quella volta, la giustizia sportiva (si era nel periodo della squalifica di Conte per il calcioscommesse, la Juve si era presentata a Londra col suo allenatore confinato in tribuna come una mela marcia qualsiasi); ma Andrea era stato chiaro: il punto che aveva segnato l'inizio, a valanga, della discesa del calcio italiano, in tutte le sue sfaccettature,  lo "spartiacque", lo aveva definito lui, era stato il 2006. "What's Calciopoli?" era stato il grido di dolore e di battaglia al tempo stesso.  Calciopoli e Scommessopoli, gli esempi di due gravi malattie che avevano travagliato il calcio italiano, dove le vere mele marce avevano avuto un buffetto e a pagare pegno erano stati i mostri in prima pagina (Moggi radiato con una norma ad personam e addirittura condannato in primo grado in sede penale per 'comportamenti al limite della sussistenza del reato di pericolo', e Conte squalificato perché, in assenza di qualsiasi prova, era più plausibile pensare che sapesse piuttosto che non sapesse: pene certe, colpe presunte assai meno).

Ci era tornato sopra poco meno di sei mesi fa, in un'intervista al Financial Times: ancora fuori dai confini, perché i temi che interessano i media (carta stampata, radio e tv) di casa nostra sono altri, quelli in grado di non suscitare pruriti in chi guida lo sgangherato carrozzone del nostro calcio. Era fine aprile e poco più di tre mesi prima la Lega di serie A si era data la nuova, in senso gattopardesco, governance, sulle cui modalità di elezione il numero uno bianconero era stato durissimo sin da subito; e da un consesso figlio di quelle dinamiche ("la Juventus non ritiene corretto che nella formazione del governo del calcio ci si incomincino a scambiare le varie poltrone per arrivare al consenso. Io credo che il governo del calcio, come il governo di qualsiasi impresa, debba essere svolto ed esercitato dalle giuste competenze e dalle giuste rappresentanze") non poteva certo sortire nulla di buono per il calcio italiano. Così Agnelli a Simon Kuper del FT: "Il calcio italiano ha bisogno di riforme strutturali. Già da qualche anno l'Italia è di fronte a un bivio, vogliamo affrontarli per restare competitivi? Abbiamo scelto di non fare niente. Nel calcio c'è bisogno di una sforzo comune per la violenza, gli stadi e la protezione dei marchi". E ancora: il campionato italiano "una volta era la meta finale per i campioni, oggi è un campionato di transito". A proposito: ben poco di questo era passato sui media nostrani, attratti come mosche dalla carta moschicida in salsa farsopolara (traducendo un "Moggi was phoning referees' bosses!" di Agnelli, con un 'Moggi telefonava agli arbitri': ignoranza dell'inglese o ingannevole malizia?).

Dopo sei mesi nulla è cambiato se non in peggio: il nostro calcio si dibatte tra la solita querelle dei diritti  televisivi e la legge per gli stadi, tra l'incasso della Supercoppa e i cori di discriminazione assortita, il tutto accompagnato dal solito corteo di incompetenze e annaspanti approfondimenti, mentre la questione di Scommessopoli sta tirando le cuoia con le mele marce pronte a rientrare piano piano. E di questa paralisi parla il presidente Agnelli a 'Leaders in Football' quest'anno:
"Dobbiamo rilanciare l'intero sistema, perché siamo ancora bloccati in una terra di nessuno. Passiamo gran parte del tempo a discutere su come spendere i soldi, e non su come il calcio italiano dovrebbe svilupparsi a livello internazionale. Il calcio è seguito da metà del paese ed ha perciò la possibilità di fungere da guida nella situazione politica italiana. A questo andrebbe applicato senso di responsabilità, di prospettiva e disciplina".
"Se guardiamo a quello che la Serie A rappresentava 10, 15 anni fa vediamo che era il campionato in cui i calciatori internazionali sognavano di giocare. Quando studiavo in Inghilterra, qui le partite della Serie A venivano trasmesse e dovunque si andasse si incontrava gente che ne parlava. Del resto, era un'altra epoca, le cose sono cambiate. La Premier League di quei tempi non è quella che è oggi. Altrove, il calcio tedesco è venuto crescendo negli ultimi 10 anni. C'era un progetto tecnico, hanno lavorato insieme con la federazione ed hanno organizzato il Campionato del Mondo. La Spagna ha due dei marchi di maggior successo al mondo. La Francia può contare su investimenti esteri. Se dovessi giudicare dal punto di vista di un calciatore, la Serie A non è più il traguardo finale, ma una destinazione di passaggio. Se ricevessimo un'offerta strepitosa per qualcuno come Pogba, saremmo in grado di trattenerlo? Non lo so. Guardate il Milan, hanno dovuto lasciare partire Ibrahimovic e Thiago Silva. Sì, si può essere un club attraente, ma si deve anche disporre della forza economica per competere". Ecco, perché quello che potrebbe accadere alla Juve (ma a qualunque altra squadra, solo che Agnelli è abituato a guardare in casa propria), ad altri è già accaduto. Il problema è del calcio italiano e in casa Juve proprio non va giù che un club che ha fatto tanto sforzi per risollevarsi dallo zero dello spartiacque 2006 e per avvicinarsi ai grandi d'oltreconfine sia continuamente ritrascinato verso il basso dalla zavorra di un mondo che non può crescere, perché non lo vuole: perché crescere significherebbe abbandonare quelle logiche di spartizione degli orticelli tanto seguite di chi non sa vedere che al di là della siepe c'è un territorio sconfinato da provare a conquistare.

Gli stessi concetti ha avuto l'opportunità di rimarcarli, in un'intervista alla CNN, che gli proponeva riflessioni a partire da temi globali come la possibilità dei calciatori di giocare per la rappresentativa del Paese  in cui vivono o la stagione in cui disputare i Mondiali in Qatar 2022 (quale altro presidente del nostro calcio, e nemmeno dirigente stile Abete "non dico niente ma parlo", affronta interviste di questo livello?); intervista fruibile da chi conosce l'inglese: infatti, nonostante la varietà e il respiro dei temi trattati, non ha suscitato l'entusiasmo dei media nostrani, impegnati a scoprire il successore di Pogba e a cercar di elevare un recalcitrante Balotelli a simbolo anticamorra. Il fil rouge seguito da Andrea è sempre lo stesso: in Italia serve una riforma strutturale del modo di gestire il calcio e, quanto al tema dei cori discriminatori spuntato improvvisamente come un fungo (c'entra qualcosa il fatto che ad essere state colpite dalla nuova normativa, in Italia e in Europa, siano state il Milan di Galliani e la Lazio di Lotito?), è chiaro:  un problema di cultura, "dobbiamo combattere per un cambiamento culturale".

Cambiare è la parola d'ordine, cambiare per crescere. Invertire il trend, mantenendo fermi i valori.
Per non dimenticare le parole di Umberto Agnelli:  "Il fenomeno calcistico supera infatti il campo strettamente sportivo, e quindi particolare, per assurgere a valori di fenomeni diversi e più vari. E? indubbio che il giuoco del calcio ha tratto la sua ispirazione e mantiene le sue regole in un ordine di valori prettamente sportivi; tuttavia la grande popolarità acquisita e la conseguente diffusione del calcio professionistico richiedono oggi una organizzazione moderna in cui si sentono sempre più vive le esigenze dello spettacolo. Sia chiaro però che il passaggio dallo stadio unicamente sportivo a quello unicamente spettacolaristico non deve avvenire e non avverrà in quanto i valori sportivi restano insuperabili".
E il monito di Giraudo: "Il problema è che in Lega non c' è più rispetto. Una volta c' erano valori, ora uno si siede e urla subito che vuole più soldi".

Andrea sta percorrendo una strada difficile, esattamente come accaduto alla Triade, circondato dallo stesso clima di ostile scetticismo: della Triade e di papà Umberto, per tentare di reggere il passo con le realtà evolute, ha già realizzato un progetto, quello dello stadio, che il peggior presidente della storia bianconera, Cobolli Gigli, l'altro giorno ha preteso di arrogarsi ["Noi facemmo un grandissimo progetto. Eravamo di fatto una realtà di Serie B (in realtà avevano rinunciato a combattere per la serie A... e per la verità) quando buttammo giù quel progetto"], un progetto invece nato nella testa di Giraudo oltre dieci anni prima, e concepito sullo stimolo dell'Avvocato che, motivando la sua assenza al Delle Alpi nella finale di Coppa Uefa contro il Borussia nel 1993, ebbe a dire: "Non mi è mai piaciuto e l'ho detto fin dal primo giorno, si sta troppo lontani, si vede male. Meglio la tv” .
E la Triade l'avrebbe portato a termine, se fosse rimasta quanto sperava, per altri dodici anni. Ma Gianni e Umberto non c'erano più...
C'erano i giovani, di cui lo stesso Giraudo disse:"Tifo e passione saranno da verificare nel tempo, però sono la premessa per tutto il resto".
Dal 2006 in poi abbiamo scoperto che sono prerogativa solo di Andrea.
Teniamocelo stretto.




Carmen Vanetti    (aka  Angelo Ribelle)


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