martedì 22 ottobre 2013

L'EQUIVOCO JUVE


L'EQUIVOCO  JUVE





In questi giorni, soprattutto dopo il rovescio di Firenze, tutti a chiedersi: 'Ma che cos'ha la Juve?'
Perché stride troppo il contrasto tra la squadra famelica e concentrata fino all'ossessione vista negli ultimi due anni e la signorinella pallida e svagata di questo inizio di campionato e Champions.

C'è indubbiamente una motivazione di matrice psicologica, che tocca quel sottile confine che c'è tra autostima e presunzione (distinguo ben colto da un competente come Moggi): Conte, all'inizio della sua avventura, aveva dovuto necessariamente infondere sicurezza di sé in un gruppo che veniva da un annus horribilis (ma dal 2006, nonostante qualche illusorio lampo, gli anni horribiles sono stati una desolante costante); il primo scudetto aveva già regalato ai suoi parecchie certezze; e poi lo scorso anno, inverosimilmente, incredibilmente, si era trasformato in una spinta quello che era stato indubbiamente un fatto negativo, e ingiusto, come il coinvolgimento, e la conseguente squalifica, di Antonio Conte (e Angelo Alessio) nel papocchio del calcioscommesse, nel cui calderone erano finiti anche Bonucci e Pepe (poi prosciolti); la squadra, asserragliata, aveva fatto quadrato e la stagione era andata bene.
Quest'anno indubbiamente la tensione si è allentata: una spia è quella del rendimento di Buffon, che gioca in un ruolo dove l'aspetto psicologico conta in misura importante, quasi decisiva, anche per l'impatto che un errore dei numeri uno può avere sulla partita: un goal preso è una mazzata più forte di un'occasione mancata, pur se matematicamente pesa uguale. E l'atteggiamento stesso di Buffon, che è il carismatico capitano, non dimentichiamolo, di questa squadra, è diverso: stiamo rivedendo il Gigi piacione e cordialone dell'era Ridentus, quando poi bastava suonare il citofono e lui apriva; nelle ultime due stagioni Buffon era feroce, a fatti, gesti e parole, anche lui era stato messo nel mirino del calcioscommesse per faccende di suoi investimenti privati che nulla avevano a che vedere con l'inchiesta, se non che servivano a nascondere il marcio che si tentava di insabbiare, era stato sbattuto in prima  pagina; e viveva sin troppo male i suoi errori (dopo la paperaccia col Lecce a mezzanotte lanciò un sms a Conte "Scusa Antonio, ho sbagliato. Avrei preferito rompermi i legamenti piuttosto che fare un errore così grossolano", son parole del mister nella sua autobiografia).

L'autostima ora rasenta la presunzione e in taluni momenti la attinge: il confine tra le due disposizioni d'animo può essere sottilissimo, nella misura in cui quel mediatore della consapevolezza che è l'ego arriva a distorcere la realtà esterna, generando un malinteso senso di superiorità che fa abbassare la guardia; e arriva il cazzotto.

Ma c'è di più, e il di più è serio, perché più insensibile ai cazzotti e più difficilmente guaribile.
E' l'equivoco della rinascita bianconera materializzatasi con l'avvento alla presidenza di Andrea Agnelli, figura ottimale per due motivi: il primo è l'amore che da sempre lo lega alla Juve, è un vero tifoso, che parla al cuore dei tifosi ("Il tifoso non è un cliente fedele. Io, prima di perdere i tifosi, devo morire"); il secondo è che lui di questa presidenza ha fatto il suo vero lavoro, da mattina a sera.
Ma la proprietà rimane strettamente in pugno a John Elkann che, manifestamente, non brucia per gli stessi sentimenti, chiede profitti, la Juve non è più oggetto d'amore, ma asset.
E qua molto stride: intendiamoci, nessuno vuole resuscitare un fenomeno come quello del mecenatismo alla milanese con patron pronti a tutto (plusvalenze fittizie, vendita di marchi, documenti falsi, rapporti per nulla cristallini con arbitri e assistenti, pedinamenti e intrusioni assortite, per finire con prescrizioni e titoli di cartone) pur di spuntarla. Alla Juve "vincere è importante, è l'unica cosa che conta", ma giocando a calcio, non al gioco delle tre carte: perché è il campo che dice la verità, anche quando fa soffrire (come in questo momento).
Ma la fredda filosofia elkanniana fa a pugni con la storia bianconera, semplicemente. Bastino le parole dell'Avvocato: "La Juve è per me l'amore di una vita intera, motivo di gioia e orgoglio, ma anche di delusione e frustrazione, comunque emozioni forti, come può dare una vera e infinita storia d'amore". Vi immaginereste mai queste parole in bocca a John Elkann?!
Si dirà che oggi il calcio è uscito definitivamente dalla sua epoca romantica, oggi la Juve è un club quotato in Borsa, e c'è il Fair Play Finanziario con i suoi parametri da soddisfare. Ma il calcio della Triade aveva ben poco di romantico, era amore sì, ma poggiato su una solida base di rigore economico: vendeva anche i campioni amati dalle folle, ma la squadra non perdeva un'unghia del suo valore.

E qui entra in ballo chi dovrebbe essere il trait d'union tra cassaforte e campo, che nella Juventus di oggi è Beppe Marotta, l'uomo che Elkann ha messo a guardia del suo asset, per preservarlo da eccessivi slanci passionali.
Tra Marotta e Conte non c'è feeling, questo è evidente (non è un caso se Conte ad ogni piè sospinto sottolinea il suo ottimo rapporto con Andrea, punto e a capo): ma non è una questione personale, Conte è focalizzato sulla squadra e sui suoi interessi, è tatticamente dinamico, vorrebbe poter plasmare sempre meglio la sua squadra a seconda delle necessità; e, al di là dell'aspetto vilmente materiale, non trova nemmeno nell'amministratore delegato e direttore generale orecchie recettive; semplicemente, non parlano la stessa lingua. Già, perché un direttore generale di un club calcistico dovrebbe essere competente anche di calcio, come lo era Moggi: che era grado di ascoltare le esigenze del mister, pur senza farsene dominare; poi ascoltava le condizioni poste dall'amministratore delegato che era Giraudo, operava la giusta sintesi, si muoveva al coperto (nonostante gli spioni) e con destrezza e alla fine consegnava al mister una squadra all'altezza; anche perché non entrava in letargo per un mesetto nel bel mezzo del mercato, non si vedeva, ma era sul pezzo, pronto a chiudere i colpi. La potenza di fuoco di 200 milioni assegnata quest'anno da Agnelli per lui sarebbe stata una manna.

Ora non è più così ed è un segreto di Pulcinella che Conte aspiri ad un ruolo di allenatore manager. E Conte, se allo scoperto smentisce dissidi con la dirigenza, dall'altra non ha mai nascosto, dall'inizio della stagione, una sua delusione (quasi vero malcontento) per il mercato estivo: anche i sassi sanno che voleva esterni, che non sono arrivati; sul rientro di Pepe non mai veramente contato: l'esterno di Albano Laziale, ormai trentenne, difficilmente tornerà ai livelli di due anni fa; anzi, le parole dette da Conte qualche settimana fa, intrise di pessimismo, lasciano pure qualche dubbio sulle effettive possibilità di recupero del giocatore: Conte è uomo di campo, gli infortuni li ha provati di persona, sa come certi malanni siano difficili da guarire (ne sia prova la prudenza con cui ha gestito l'anno scorso il caso di Vucinic e quest'anno quello di Barzagli, nonostante si trattasse di due elementi per lui fondamentali).

Questo è lo stato dell'arte, una condizione imbalsamata nell'equivoco tra il binomio cuore&competenza da una parte e apatia&lucro dall'altra. In mezzo c'è la Juve.

Carmen Vanetti   (aka) Angelo Ribelle

Twitter: @JuveGrandeAmor
               

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