MORATTI: IL LIBRO E LA COPERTINA
"Si chiude un'epoca durata 18 anni" ma anche "La fine di un'era" così
iniziavano ieri i primi servizi televisivi dopo l'annuncio dato in anteprima da
Massimo Moratti: 18 anni che vengono riproposti come un'epopea cavalleresca, con
il patron meneghino nelle vesti di novello Re Artù (fonte: Sky), una cavalcata
trionfale simboleggiata da un Moratti che alza trofei al cielo: una bella
copertina ad uso e consumo di chi non sa o non vuole leggere il libro.
Perché, anzitutto, questa è solo l'Inter post-2006, ovvero post-Calciopoli, lo spartiacque del calcio italiano. Perché i primi undici anni
della presidenza Moratti non erano stati altrettanto ricchi di trionfi.
Non che il numero uno nerazzurro fosse rimasto con le mani in mano, per
carità: anzi si era dato assai da fare, per esempio ricorrendo (non solo lui, in
verità) ad una serie di artifici contabili quali, ad esempio, la vendita del
marchio a se stessi (da Inter a Inter Brand, società controllata al 100%, per
159 milioni di euro); quali, ad esempio, le plusvalenze selvagge incrociate
(ottenute con scambi di giocatori sconosciuti, e che tali sarebbero rimasti, e
che sul binario Inter-Milan nel 2003 fruttarono rispettivamente 14 e 12 milioni
di euro); quali (tralasciando ovviamente le quisquilie come la fidejussione
pagata in ritardo di tre mesi nel 2002 o le chiacchiere di Georgatos su pratiche
dopanti) la grossa grana del passaporto falso di Recoba (con Oriali, all'epoca
dirigente dell'Inter, e lo stesso Recoba costretti a patteggiare sei mesi di
reclusione), che avrebbe dovuto costare la serie B, ma Carraro (Ordine dixit) in Consiglio
Federale si oppose ("Non posso retrocedere l’Inter per il 'caso dei passaporti'
perché Moratti ha investito 600 milioni nel calcio").
Sul piano calcistico le soddisfazioni, nonostante quel fiume di denaro
investito, non arrivavano, per un motivo semplicissimo: Moratti collezionava
figurine, non calciatori veri: parliamo di personaggini come Vampeta, Domoraud,
Brechet, Sorondo, Gresko, Pacheco, Okan, Pancev, Pistone, Rambert.... Ma
l'elenco è lungo: andare lontano con costoro era impossibile; e allora... non
resta che piangere. All'aperto: ma dietro le quinte si prepara altro.
Il 5 maggio 2002 aveva lasciato il segno. Le lacrime di Zanetti e Ronaldo
commossero quel cuor d'oro di Moratti a tal punto da indurlo a commissionare il
Dossier Ladroni al Tiger Team di Tavaroli, approdando a Telecom via Pirelli.
Infatti, lungi dal pensare che il bidonume che mandava in campo c'entrasse
qualcosa, preferì attaccarsi alle fanfaluche di Nucini. E fu una storiaccia di
pedinamenti e intercettazioni; ma che poteva farci lui? "Un tizio si offrì di
farlo", detto e ripetuto
dallo stesso Moratti. E da lì fu Calciopoli, con tutti i suoi misteri: dal
viaggio del pc di Tavaroli in via In Selci (la tana di Auricchio) al misterioso
fascicolo archiviato come modello 45 e difeso con le unghie e coi denti dalla
dott.ssa Boccassini.
Dal 2006 iniziano, guarda caso, le vittorie di cui si bea un tronfio
Moratti. A cominciare dallo scudetto del 2006, quello 'ritirato in segreteria'
(Mourinho dixit), quello 'di merda e cartone' (Mughini dixit) quello che l'ex
patron nerazzurro considera il più amato e che, se mai fosse stato capace di un
sussulto di dignità, avrebbe dovuto rifiutare: perché quel campionato, mai sotto
inchiesta, era stato vinto da una super-Juve che all'Inter aveva dato 15
lunghezze di distacco. Ma come si potrebbe pensare capace di un tale atto di
lealtà chi, dopo essere stato mascherato dalle telefonate che non c'erano e
dalla relazione di Palazzi, si è nascosto dietro la prescrizione (quella che le
presunte pecore nere di Calciopoli rifiutano, perché l'onore non ha prezzo)? Ma
le mani sporche di marmellata le hanno viste tutti. E basterebbero da sole a
distruggere l'agiografia di questi giorni.
In realtà Moratti una soluzione per il futuro l'aveva anche trovata. In casa
Inter, ma anche in casa Milan, avevano capito dov'era il grimaldello per
scalzare la Juve: era nella sua inarrivabile accoppiata Moggi-Giraudo. La cui
posizione, dopo la morte di Umberto, non era più quella di prima, e lo sapevano anche loro. E
allora le due milanesi cercarono di allettare la coppia regina (e lo disse
Crosetti, non certo uno sospettabile di soffrire di filomoggismo); la cosa non
approdò a nulla e poi sappiamo tutti com'è andata. E come non sarebbe dovuta
andare.
Ma senza una governance gestionale illuminata, nonostante le vittorie e il
Triplete, la fine era segnata, prima o poi. Perché le spese continuavano
e perché gli investimenti sui giocatori (a parte gli affari Ibra e Vieira regali
di Calciopoli) continuavano ad essere fine a se stessi e non basi per il futuro.
Il rosso in bilancio diventava sempre più rosso, la Saras, la società
petrolifera di Moratti, perdeva abbondantemente colpi. Perdite e debiti in
aumento, rubinetti in entrata chiusi: manovre disperate, ingaggi tagliati e
spalmati con la foglia di fico di un Fair Play Finanziario a nascondere una
situazione non più sostenibile.
E allora arriva quello che viene poeticamente dipinto come un atto d'amore,
in realtà, prosaicamente, un gesto imposto dalla realtà: un Moratti in mutande
deve mettere le mani nelle tasche dei pantaloni di Thohir, col suo bel
portafoglio gonfio. In gergo finanziario si chiama cessione del 70% delle azioni
dell'Inter al tycoon di Djakarta.
Il mecenatismo alla milanese sta dunque tirando le cuoia se è vero, come ha
raccontato Tuttosport, che anche il Milan è alla ricerca di investitori in terra
straniera, ad Abu Dhabi: è il triste esito di un calcio italiano in crisi, e non
solo di risultati, ma di tutto, di valori in primis. Un calcio (con i suoi profeti e i suoi servi sciocchi) secondo il quale la
vox clamans in deserto di Andrea Agnelli parla della paura di perdere Pogba e
non dell'urgenza di riformare dalle fondamenta un movimento ciecamente
autolesionista. Prima che sia troppo tardi.
Carmen Vanetti (aka Angelo Ribelle)
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