giovedì 28 novembre 2013

E' LA JUVE LA LEPRE: CIUCCI E LUPI HANNO GIA' IL FIATONE

E' la Juve la lepre: ciucci e lupi hanno già il fiatone.


Quest'anno era scritto: lo scudetto doveva essere un affare tra Napoli e Roma. Il Napoli perché lo meritava, stando al sentimento popolare, già l'anno scorso, peccato che avesse fatto meno punti della Juve: e poi c'era il nuovo vate don Raffaè, allenatore di lungo corso, che per altro con gli scudetti non ha un gran feeling (solo due successi nelle Liga col Valencia nel 2002 e  nel 2004). La Roma perché anch'essa aveva un nuovo vate che aveva iniziato a spron battuto demolendo record di vittorie consecutive: 30 punti nelle prime 10 partite facevano già sognare e gonfiare presuntuosamente il petto ai tifosi della Maggica e der Pupone, che puntavano dritti verso sogni di quello scudetto, che mancava dal 2001, l'anno del titolo arraffato con la porcheria del cambiamento in corsa della regola sul numero di extracomunitari, la magia che avrebbe consentito alla Roma di estrarre dal cilindro non il classico coniglio, ma il giapponese Nakata, che si sarebbe rivelato determinante nello scontro diretto che avrebbe deciso la lotta scudetto.
C'è voglia di scudetto al Sud: su 109 scudetti solo 8 sono andati al Sud; e allora il sentimento popolare chiede uno Scudetto al Sole: bisogna interpretare la volontà della gente, perché non diventi uno Scandalo al Sole. Come ai tempi di Calciopoli.
Lì non c'entrava il Sud, a giocarselo avrebbero dovuto essere Inter e Milan, Moggi e Giraudo lo sapevano: ma vinse il migliore, cioè la Juve. E cosa accadde lo sappiamo tutti.
Dunque la lotta dovrebbe essere tra 'o surdato innamorato e la sora Lella.
Alla Juve avevano già celebrato il funerale: aveva comprato sì, due attaccanti, ma erano Tevez, sovrappeso, anche più di Cassano, e Llorente, un pennacchione di bell'aspetto ma così inutile che, dopo qualche esperimento nella tournée americana, Conte aveva tolto dal campo; il fatto che fosse un parametro zero qualcosa avrebbe potuto suggerire, se pensiamo che gli ultimi due parametri zero si chiamavano Pirlo e Pogba. Invece lo davano già con le valigie in mano.
Da Napoli e Roma giungevano messaggi traboccanti lusinghiere prospettive, mentre da Torino un Conte tra il prudente e il sornione si dilungava sul fatto che vincere per la terza volta sarebbe stato molto molto mooooolto difficile.

Nella prima partita che contava la Juve aveva perso l'incasso rapinato dai 'banditi' di cui Giraudo aveva preannunciato l'arrivo ma aveva vinto la seconda Supercoppa consecutiva, strapazzando la Lazio del nuovo barone Lotito, poi, sia in campionato che in Coppa aveva avuto un andamento irregolare, caratterizzato però soprattutto da una serie di cappellate difensive cui davvero non ci aveva abituati dall'inizio dell'era Conte. In campionato diciamo che aveva avuto anche un calendario decisamente tosto, inusuale per una squadra che portava lo scudetto cucito sul petto; e ciononostante non avevamo assistito ad alcuna scena di Agnelli e Marotta che fuggivano in motorino: quelle sono cinepanettonate.
Ma il verdetto era già stato pronunciato: la Juve non aveva più fame, aveva la pancia piena, mancavano le motivazioni; in realtà i bianconeri incorrevano semplicemente in una serie di strafalcioni dovuti ad un eccesso di confidenza: quando l'autostima sconfina in un pizzico di presunzione, colorata di certezza che tutto finirà bene.
E la fiera degli strafalcioni toccava il suo apice in quel di Firenze dove una Juve comodamente avanti di due reti e con la partita in mano incappava in una debacle inattesa: il black out lasciava storditi i tifosi, dava fiato alle trombe mediatiche che suonavano 'Il silenzio' sulla stagione della Juve ma, in controtendenza, risvegliavano l'ardore della truppa che, da allora in poi, segnava un costante crescendo sul piano del gioco, dell'attenzione, della concretezza.

Si avvicinava il momento di Juve-Napoli, alla pari in classifica, con la Roma tre punti avanti; la Roma, che contava di fare un sol boccone del neopromosso Sassuolo, auspicava un pareggio tra le due contendenti, per aumentare il suo vantaggio.
Intanto Benitez cominciava a mettere le mani avanti: il suo Napoli era solo al 75%, la Juventus era forte; i media scatenavano la statistica: la Juventus non ha mai battuto Benitez, il Napoli arrivava sullo slancio di cinque successi consecutivi, guidato da un Hamsik che amava andare a rete contro i bianconeri.
Conte replicava, un po' provocatorio: "Benitez è abbastanza intelligente da capire che se il Napoli non vince lo scudetto quest'anno non avrà fatto niente". E con un'ostentata preoccupazione che nascondeva un'irridente ironia: "Benitez dice che il Napoli è al 75%, e la cosa mi preoccupa. Perché è a pari punti con noi. Mi chiedo cosa sarà capace di fare quando sarà al 100%. Non ci sarà campionato". Mamma mia, che paura!
E mentre la Roma inciampava, nell'extratime, sul Sassuolo, castigata proprio da un gioiellino col futuro già scritto in bianconero, la Juve rifilava tre polpette avvelenate al Napoli, con i suoi tre parametri zero, Llorente, Pirlo e Pogba, che tanto stridevano con la "campagna da 90 milioni" che Conte un po' invidiava al collega.
Quel collega tanto esaltato dalla stampa perché  non  ama caricare la squadra di allenamenti, concede il venerdì libero e abolisce il ritiro prepartita, conta sulla serietà dei giocatori e mette il relax al primo posto. Mica un martello come Conte, che arringa i suoi in stile 'Ogni maledetta domenica' e finché non son tirati a lucido e non hanno imparato gli schemi a puntino non li manda in campo.
E a questo punto si toglieva qualche sassolino dalle scarpe e lo lanciava in testa a don Raffaè, cui la sconfitta aveva tolto qualsiasi traccia di ritegno e che si era permesso un "In effetti ho vinto solo dieci titoli internazionali e se non vinco é un fallimento. Non dimentichiamoci che abbiamo affrontato una squadra reduce da 29 scudetti e con un fatturato da 283 milioni, mentre noi siamo un club in crescita"; e con un allenatore bocciato in aritmetica, prima di tutto.
Conte, dicevo, non l'aveva presa bene: "Tra giocatore e allenatore penso di aver vinto una ventina di titoli, e quindi penso di poter dare insegnamenti a tanti che pensano di essere più bravi - aveva gelato tutti - Ma penso anche che le sconfitte, come tre finali di Champions, mi abbiano dato la giusta cattiveria. Non penso di essere l’ultimo arrivato". Poi era passato alla sua nuova arma, l'ironia, a spiegare perché avesse scelto di parlare dopo Benitez: "Perché non uscivo dagli spogliatoi? Stavamo discutendo con il presidente Agnelli del fatturato e non tornavano i conti, e allora chiedevo: 'Ma perché quei cinque milioni non sono stati spesi?'".

E poi passava lenta tutta la noiosa pausa dedicata alle Nazionali, tutti intenti ad ascoltare un Rudi Garcia rassicurare i tifosi della Maggica: 'Siamo primi e dipende solo da noi restarci'.
In realtà dipendeva anche dal calendario perché la Roma giocava nel Monday Night e la Juve, nel pomeriggio della domenica, si era portata avanti col lavoro in quel di Livorno: tre punti che permettevano il  sorpasso, temporaneo, certo, o forse no: il terzo pareggio consecutivo della truppa di Garcia, ormai col braccino, toglieva definitivamente il sorriso dal viso di Garcia, sempre disteso e rilassato finché vinceva, aggrappato a  qualsiasi pretesto, dalle assenze al terreno calpestato dai rugbisti, quando i punti di vantaggio, inesorabilmente, scivolavano via. E velenoso nel ricordare all'Italia che siamo nel XXI secolo, e impedirgli di usare il suo fedele walkie talkie (anzi, talkie walkie) per comunicare, da espulso, con la panchina era un'anomalia tutta italiana. Non la peggiore, glielo garantiamo.

Diciamo che è stato un po' il capolavoro di Conte, sia a livello psicologico-motivazionale che a livello mediatico-comunicativo. Antonio, nella sua carriera, da giocatore e da allenatore, ha pagato già a sazietà le pugnalate da sentimento popolare: sul campo con la piscina di Perugia, fuori dal campo con l'assurdo coinvolgimento nella bolla del caso doping; da allenatore con l'allucinante squalifica relativa al calcio scommesse, accusato di non sapere quello che una mela marcia andava fantasiosamente almanaccando per salvare se stesso.
La lezione di Firenze gli è rimasta dentro; anche se per lui "perdere è morire", aveva detto, a botta calda: "Ogni tanto le sconfitte fanno bene e ogni tanto si impara più da una sconfitta che da una vittoria". Mi auguro che questo cazzotto ci faccia capire tante cose se ancora non l'abbiamo capite". E da parte sua gli abbiamo sentito dire: "Penso che le sconfitte mi abbiano dato molto più della vittoria e che io abbia quella cattiveria proprio dovuta alla sconfitta, perché io voglio vincere, non accetto di perdere e faccio sempre di tutto per vincere". Con tutte queste premesse ha lavorato sulla testa dei suoi, nel chiuso di Vinovo; e all'esterno allontanava l'attenzione dai tormentoni delle valigie già pronte per se stesso, Pirlo, Pogba, Vidal, Llorente, con veementi rampogne verso chi tentava di destabilizzare l'ambiente Juve. Intendiamoci, questo non gli ha certo attirato simpatie, soprattutto da parte di chi aveva una bella coda di paglia che cominciava a prender fuoco. Ma Conte non ha mai cercato consensi, lui vuole vincere, e la storia della Juve gli insegna che chi vince non è simpatico.
Della Juve simpaticamente ridens ne abbiamo avuto abbastanza tutti nel post Calciopoli.
Adesso la Juve è tornata. A vincere. Perché è l'unica cosa che conta. Fino alla fine.


Carmen Vanetti (aka Angelo Ribelle)

Twitter: @JuveGrandeAmor

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