Quest'anno
era scritto: lo scudetto doveva essere un affare tra Napoli e Roma. Il Napoli
perché lo meritava, stando al sentimento popolare, già l'anno scorso, peccato
che avesse fatto meno punti della Juve: e poi c'era il nuovo vate don Raffaè,
allenatore di lungo corso, che per altro con gli scudetti non ha un gran feeling
(solo due successi nelle Liga col Valencia nel 2002 e nel 2004). La Roma perché
anch'essa aveva un nuovo vate che aveva iniziato a spron battuto demolendo
record di vittorie consecutive: 30 punti nelle prime 10 partite facevano
già sognare e gonfiare presuntuosamente il petto ai tifosi della Maggica e der
Pupone, che puntavano dritti verso sogni di quello scudetto, che mancava dal
2001, l'anno del titolo arraffato con la porcheria del cambiamento in corsa
della regola sul numero di extracomunitari, la magia che avrebbe consentito alla
Roma di estrarre dal cilindro non il classico coniglio, ma il giapponese Nakata,
che si sarebbe rivelato determinante nello scontro diretto che avrebbe deciso la
lotta scudetto.
C'è voglia di scudetto al Sud: su 109 scudetti solo 8 sono
andati al Sud; e allora il sentimento popolare chiede uno Scudetto al Sole:
bisogna interpretare la volontà della gente, perché non diventi uno Scandalo al
Sole. Come ai tempi di Calciopoli.
Lì non c'entrava il Sud, a giocarselo
avrebbero dovuto essere Inter e Milan, Moggi e Giraudo lo sapevano: ma vinse il
migliore, cioè la Juve. E cosa accadde lo sappiamo tutti.
Dunque la
lotta dovrebbe essere tra 'o surdato innamorato e la sora Lella.
Alla Juve
avevano già celebrato il funerale: aveva comprato sì, due attaccanti, ma erano
Tevez, sovrappeso, anche più di Cassano, e Llorente, un pennacchione di
bell'aspetto ma così inutile che, dopo qualche esperimento nella tournée
americana, Conte aveva tolto dal campo; il fatto che fosse un parametro
zero qualcosa avrebbe potuto suggerire, se pensiamo che gli ultimi due parametri
zero si chiamavano Pirlo e Pogba. Invece lo davano già con le valigie in
mano.
Da Napoli e Roma giungevano messaggi traboccanti lusinghiere
prospettive, mentre da Torino un Conte tra il prudente e il sornione si
dilungava sul fatto che vincere per la terza volta sarebbe stato molto molto
mooooolto difficile.
Nella prima partita che contava la Juve aveva perso
l'incasso rapinato dai 'banditi' di cui Giraudo aveva preannunciato l'arrivo ma
aveva vinto la seconda Supercoppa consecutiva, strapazzando la Lazio del nuovo
barone Lotito, poi, sia in campionato che in Coppa aveva avuto un andamento
irregolare, caratterizzato però soprattutto da una serie di cappellate difensive
cui davvero non ci aveva abituati dall'inizio dell'era Conte. In campionato
diciamo che aveva avuto anche un calendario decisamente tosto, inusuale per una
squadra che portava lo scudetto cucito sul petto; e ciononostante non avevamo
assistito ad alcuna scena di Agnelli e Marotta che fuggivano in motorino: quelle
sono cinepanettonate.
Ma il verdetto era già stato pronunciato: la Juve non
aveva più fame, aveva la pancia piena, mancavano le motivazioni; in realtà i
bianconeri incorrevano semplicemente in una serie di strafalcioni dovuti ad un
eccesso di confidenza: quando l'autostima sconfina in un pizzico di presunzione,
colorata di certezza che tutto finirà bene.
E la fiera degli strafalcioni
toccava il suo apice in quel di Firenze dove una Juve comodamente avanti di due
reti e con la partita in mano incappava in una debacle inattesa: il black out
lasciava storditi i tifosi, dava fiato alle trombe mediatiche che suonavano 'Il
silenzio' sulla stagione della Juve ma, in controtendenza, risvegliavano
l'ardore della truppa che, da allora in poi, segnava un costante crescendo sul
piano del gioco, dell'attenzione, della concretezza.
Si avvicinava il
momento di Juve-Napoli, alla pari in classifica, con la Roma tre punti avanti;
la Roma, che contava di fare un sol boccone del neopromosso Sassuolo, auspicava
un pareggio tra le due contendenti, per aumentare il suo
vantaggio.
Intanto Benitez cominciava a mettere le mani avanti: il suo Napoli
era solo al 75%, la Juventus era forte; i media scatenavano la statistica: la
Juventus non ha mai battuto Benitez, il Napoli arrivava sullo slancio di cinque
successi consecutivi, guidato da un Hamsik che amava andare a rete contro i
bianconeri.
Conte replicava, un po' provocatorio: "Benitez è abbastanza
intelligente da capire che se il Napoli non vince lo scudetto quest'anno non
avrà fatto niente". E con un'ostentata preoccupazione che nascondeva
un'irridente ironia: "Benitez dice che il Napoli è al 75%, e la cosa mi
preoccupa. Perché è a pari punti con noi. Mi chiedo cosa sarà capace di fare
quando sarà al 100%. Non ci sarà campionato". Mamma mia, che paura!
E mentre
la Roma inciampava, nell'extratime, sul Sassuolo, castigata proprio da un
gioiellino col futuro già scritto in bianconero, la Juve rifilava tre polpette
avvelenate al Napoli, con i suoi tre parametri zero, Llorente, Pirlo e Pogba,
che tanto stridevano con la "campagna da 90 milioni" che Conte un po' invidiava
al collega.
Quel collega tanto esaltato dalla stampa perché non ama
caricare la squadra di allenamenti, concede il venerdì libero e abolisce il
ritiro prepartita, conta sulla serietà dei giocatori e mette il relax al primo
posto. Mica un martello come Conte, che arringa i suoi in stile 'Ogni maledetta
domenica' e finché non son tirati a lucido e non hanno imparato gli schemi a
puntino non li manda in campo.
E a questo punto si toglieva qualche sassolino
dalle scarpe e lo lanciava in testa a don Raffaè, cui la sconfitta aveva tolto
qualsiasi traccia di ritegno e che si era permesso un "In effetti ho vinto solo
dieci titoli internazionali e se non vinco é un fallimento. Non dimentichiamoci
che abbiamo affrontato una squadra reduce da 29 scudetti e con un fatturato da
283 milioni, mentre noi siamo un club in crescita"; e con un allenatore bocciato
in aritmetica, prima di tutto.
Conte, dicevo, non l'aveva presa bene: "Tra
giocatore e allenatore penso di aver vinto una ventina di titoli, e quindi penso
di poter dare insegnamenti a tanti che pensano di essere più bravi - aveva
gelato tutti - Ma penso anche che le sconfitte, come tre finali di Champions, mi
abbiano dato la giusta cattiveria. Non penso di essere l’ultimo arrivato". Poi
era passato alla sua nuova arma, l'ironia, a spiegare perché avesse scelto di
parlare dopo Benitez: "Perché non uscivo dagli spogliatoi? Stavamo discutendo
con il presidente Agnelli del fatturato e non tornavano i conti, e allora
chiedevo: 'Ma perché quei cinque milioni non sono stati spesi?'".
E
poi passava lenta tutta la noiosa pausa dedicata alle Nazionali, tutti
intenti ad ascoltare un Rudi Garcia rassicurare i tifosi della Maggica: 'Siamo
primi e dipende solo da noi restarci'.
In realtà dipendeva anche dal
calendario perché la Roma giocava nel Monday Night e la Juve, nel pomeriggio
della domenica, si era portata avanti col lavoro in quel di Livorno: tre punti
che permettevano il sorpasso, temporaneo, certo, o forse no: il terzo pareggio
consecutivo della truppa di Garcia, ormai col braccino, toglieva definitivamente
il sorriso dal viso di Garcia, sempre disteso e rilassato finché vinceva,
aggrappato a qualsiasi pretesto, dalle assenze al terreno calpestato dai
rugbisti, quando i punti di vantaggio, inesorabilmente, scivolavano via. E
velenoso nel ricordare all'Italia che siamo nel XXI secolo, e impedirgli di
usare il suo fedele walkie talkie (anzi, talkie walkie) per comunicare, da
espulso, con la panchina era un'anomalia tutta italiana. Non la peggiore, glielo
garantiamo.
Diciamo che è stato un po' il capolavoro di Conte, sia a
livello psicologico-motivazionale che a livello mediatico-comunicativo. Antonio,
nella sua carriera, da giocatore e da allenatore, ha pagato già a sazietà le
pugnalate da sentimento popolare: sul campo con la piscina di Perugia, fuori dal
campo con l'assurdo coinvolgimento nella bolla del caso doping; da allenatore
con l'allucinante squalifica relativa al calcio scommesse, accusato di non
sapere quello che una mela marcia andava fantasiosamente almanaccando per
salvare se stesso.
La lezione di Firenze gli è rimasta dentro; anche se per
lui "perdere è morire", aveva detto, a botta calda: "Ogni tanto le sconfitte
fanno bene e ogni tanto si impara più da una sconfitta che da una vittoria". Mi
auguro che questo cazzotto ci faccia capire tante cose se ancora non l'abbiamo
capite". E da parte sua gli abbiamo sentito dire: "Penso che le sconfitte mi
abbiano dato molto più della vittoria e che io abbia quella cattiveria proprio
dovuta alla sconfitta, perché io voglio vincere, non accetto di perdere e faccio
sempre di tutto per vincere". Con tutte queste premesse ha lavorato sulla testa
dei suoi, nel chiuso di Vinovo; e all'esterno allontanava l'attenzione dai
tormentoni delle valigie già pronte per se stesso, Pirlo, Pogba, Vidal,
Llorente, con veementi rampogne verso chi tentava di destabilizzare l'ambiente
Juve. Intendiamoci, questo non gli ha certo attirato simpatie, soprattutto da
parte di chi aveva una bella coda di paglia che cominciava a prender fuoco. Ma
Conte non ha mai cercato consensi, lui vuole vincere, e la storia della Juve gli
insegna che chi vince non è simpatico.
Della Juve simpaticamente ridens ne
abbiamo avuto abbastanza tutti nel post Calciopoli.
Adesso la Juve è tornata.
A vincere. Perché è l'unica cosa che conta. Fino alla fine.
Carmen Vanetti (aka Angelo Ribelle)
Twitter: @JuveGrandeAmor
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