Il pallone lo porto io: parola di Luciano Moggi
Luciano Moggi ama "soprattutto parlare di futuro, prospettive,
progetti": ed è sufficiente passare qualche ora in sua compagnia per averne
la prova. Ma "il passato comunque me lo tengo stretto", dice nella
premessa al suo "Il pallone lo porto io": e ne ha ben donde, perché è
sicuramente un passato di cui deve andare più che orgoglioso.
"Spero non risulti un'opera di autoincensamento": non ha avuto
bisogno di autoincensarsi, gli è bastato semplicemente raccontare spiccioli di
vita vissuta. Una vita intensa, fatta di difficoltà, di trattative, di successi,
di scherzi: tutto però con un ingrediente fondamentale, il calcio.
Un calcio che, come tutti noi, ha conosciuto da bambino, prendendo a calci
tutto quanto ricordasse vagamente un pallone, un calcio nel quale ha presto
saputo imboccare la strada più consona alle sue attitudini, che non erano quelle
del giocatore ma del manager.
Una strada ardua e lunga, perché nessuno gli ha mai steso un tappeto rosso,
ma le soddisfazioni sono arrivate: in tutte le società che ha attraversato ha
lasciato il segno, che fosse il Napoli di Maradona o il Torino del superstizioso
presidente Sergio Rossi o la Roma di Liedholm o, naturalmente, la Juve, da dove
era partito come osservatore per poi tornarvi come Direttore, per
antonomasia.
Sì, perché Luciano Moggi è spesso esaltato, a buon diritto, per le sue
straordinarie doti di uomo mercato, ma i suoi colpi di mercato e le altre
primedonne dei vari club andavano poi gestiti per tutta la stagione. Con la
massima fermezza, anche se si chiamavano Maradona, piuttosto che Zidane o Davids
o Camoranesi o Vieri: la legge era uguale per tutti. E, in ogni caso, "che
nessuno si azzardi a far uscire una sola parola".
Era anche tutto ciò a far di lui una figura insostituibile: quella che ora,
tanto per non andar lontani, manca tremendamente alla Juventus.
Tutto questo racconta il suo libro, con un occhio particolare ovviamente al
mercato, causa del suo successo e paradossalmente delle sue 'disgrazie': già,
perché i giocatori soffiati o strappati alla concorrenza sono davvero tanti
(tra le storie forse meno note c'è il 'caso' di un diciottenne Sergio Brio,
partito da Lecce in odor di Milan e sceso invece dall'auto a Torino; e quello
di Montero, sfilato all'Inter con una telefonata, un secondo prima della firma).
Imperdonabile!
E c'è la storia dell'approdo in bianconero di Pavel Nedved: un approdo
tutt'altro che semplice, perché Pavel osò dire no alla Juve; in realtà ad
ammaliarlo non era la maglia biancoceleste ma erano i campi da golf
dell'Olgiata; e allora Moggi dovette ricorrere ad uno dei suoi non inusuali
colpi di genio, attirandolo a vedere il circolo Golf del parco La Mandria: la
"bellezza di quel paradiso" e il clamore mediatico del suo 'tradimento'
furono decisivi per convincere il biondo Pavel a trasferirsi a Torino.
Tanti e belli i camei dei vari personaggi. Ci sono quelli amati da Luciano:
Gentile ("una delle poche persone del mondo del cacio che ti dice le cose
in faccia, comprese le più scomode. Uno che non ti parla mai alle spalle.
Insomma, un uomo"), Ibra ("se fossi rimasto io alla Juventus, Ibra
sarebbe ancora bianconero"), e poi Ferrara, Conte, Vieri, Capello, Lippi;
naturalmente sullo sfondo dell'universo Juve aleggiano, anzi, si stagliano, le
figure dell'Avvocato e del Dottore.
E ci sono quelli fatti di un'altra pasta, gli incompatibili: Miccoli (non
solo entrò in conflitto col Direttore per il suo stravagante mix di orecchini e
tatuaggi ma, quando fu ceduto per l'arrivo di Ibrahimovic, ebbe a dire che
sarebbe stato a causa del suo rifiuto di passare alla Gea; quando invece era
evidente che tra lui e Ibra non c'era gara...), Boniek (soprattutto il Boniek ex
calciatore, praticamente un Zeman in salsa polacca); e poi i vari Collina,
Zaccone e la compagnia starnazzante del capitolo Calciopoli.
E poi gli affetti privati: i genitori, la sorella voluta e vicina nei
momenti importanti, l'amico d'infanzia Umberto e, ovviamente, la moglie
Giovanna, cui riconosce il grande merito di aver mandato avanti una splendida
famiglia consentendogli di dedicarsi anima e corpo alla sua professione: come si
suol dire, accanto ad un grande uomo c'è sempre una grande donna.
Infine ovviamente c'è Calciopoli, con un rimpianto, essersi dimesso:
"Mi feci da parte io, per dar modo alla Juventus di potersi difendere meglio
dalle accuse. Visto com'è andata, con la squadra retrocessa d'ufficio in Serie
B, considero un errore quelle dimissioni".
Ma da quei momenti, proprio vedendosi e rivedendosi nelle immagini
televisive di quei 39 secondi di "Mi manca l'anima... mi è stata uccisa...
da stasera il mondo del calcio non è più il mio mondo", ha ritrovato tutto
il suo spirito combattivo, quello che aveva fatto di lui Luciano Moggi.
In questi anni si è trovato anche a leggere "Il processo" di Kafka e a
ritrovarvi sconcertanti analogie con la sua vicenda, davvero kafkiana: anche qui
c'è un accusato che non sa quale sia la sua colpa: nonostante non siano state
rilevate irregolarità nel campionato né nei famigerati sorteggi, nonostante un
proliferare di sensazioni e zero prove, e non sono bastati due gradi di
giustizia ordinaria (su quella domestica del circolo della caccia di sandulliana
memoria non val nemmeno la pena di spendere più parola alcuna...) a trovarne
traccia.
Sono stati tempi duri ma la consapevolezza di essere innocente è diventata
la sua forza e lo ha spinto, ancora una volta a guardare in faccia la realtà,
"a sfidarla, senza paura"; ad andare avanti nella sua lotta, in
Cassazione, alla Corte europea, ovunque. Con l'appoggio di tanti amici, perché
quelli veri gli sono rimasti accanto e ad esse se ne sono persino aggiunti di
nuovi: chi se n'è andato amico non era.
"Ero e sono un uomo di carattere, uno che non permette alla
mosca di fermarsi sul naso".
Questo il suo autoritratto: e più perfetto non poteva riuscirgli.
E la sua conclusione dunque è:
"Ma non mollo. Fino alla fine".
Carmen Vanetti
Twitter: @JuveGrandeAmor
Facebook: Gruppo FINO ALLA FINE..... JUVENTUS
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